Il formulario del documento privato tra norma giuridica e prassi notarile
L’apporto della scuola bolognese di notariato del secolo XIII
Résumé
Il contributo si propone di analizzare il rapporto dottrinale tra l’opera di due fra i più grandi maestri bolognesi di notariato del xiii secolo: l’Ars Notariae di Salatiele e la Summa totius artis notariae di Rolandino, che vengono esaminate in particolare rispetto alla concezione del formulario e alla sua evoluzione, in più ampia relazione con la normativa giuridica e con la prassi processuale. Il contributo si presenta suddiviso in due parti: una prima nella quale si ripercorre il contesto storico-giuridico generale dall’età tardo-antica al Medioevo, attraverso la pratica giudiziaria dell’età romano-barbarica, per inquadrare l’evoluzione subita dai formulari notarili in relazione al rapporto processo-documento scritto e per meglio apprezzare le motivazioni di quello che viene definito dalla dottrina come il “crollo dei formulari” (Tjäder) del periodo alto-medievale; nella seconda parte si analizzano nello specifico le vicende editoriali, scientifiche e politiche che videro contrapporsi nella Bologna della metà del Duecento Rolandino e Salatiele alla luce della diversa concezione che i due maestri avevano del notariato e della pratica notarile e processuale, in un momento, il xiii secolo, che rappresenta la fase decisiva di ricostruzione del rapporto tra legislazione e prassi notarile, che si estrinseca nel formulario, e che nel corso di questo secolo si arricchisce della riflessione teorica e dottrinale proprio della scuola bolognese.
La presente ricerca si propone di analizzare il rapporto dottrinale tra l’opera di Salatiele (Ars Notariae) e quella di Rolandino (Summa totius artis notariae) rispetto alla concezione del formulario e alla sua evoluzione, in rapporto con la normativa giuridica e con la prassi processuale*. Prima di entrare nel merito della questione, dunque, si rende necessaria una breve premessa storico-giuridica di carattere generale per meglio inquadrare i problemi sollevati dal tema del nostro intervento.
Introduzione
Parlando della documentazione scritta quale fonte privilegiata per la conoscenza della vita e degli sviluppi degli istituti giuridici nel medioevo, Guido Astuti ne avvertiva e sottolineava contemporaneamente l’intrinseca fragilità e fallacità di fronte ad un approccio scarsamente critico. I documenti, avvertiva il compianto maestro, “non sono sempre espressione genuina, schietta, immediata della concreta empiria giuridica, occorre sapervi distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto, sceverare il dato della effettiva realtà del diritto, dalla terminologia, dalle clausole, dagli schemi tralatizi, che sopravvivono tenacemente per il proverbiale conservatorismo della prassi notarile, legata quasi sempre all’uso ed abuso dei formulari tradizionali. Sarebbe, infatti, fonte di gravi errori di valutazione l’accettare senz’altro come interamente corrispondenti alla pratica giuridica dell’età romano-barbarica le testimonianze dei documenti intorno al contenuto e alle forme degli atti e negozi documentati, quali risultano dai formulari tipici del notariato medievale”1.
Queste parole di Astuti ci pare introducano al meglio l’oggetto del nostro discorso, i formulari medievali (da intendersi quelli notarili o comunque atti alla redazione di documenti giuridici, ché di formulari nel Medioevo ne transitano di tanti tipi, dai cerimoniali ai liturgici2), mettendone ben in rilievo l’estrema complessità e le molteplici sfaccettature, diverse delle quali ancora non del tutto conquistate alla scienza storica.
Un sommario sguardo alla dottrina giuridica potrà bastare a rendere evidente tale affermazione. Per diverso tempo, ad esempio, si è dibattuto circa il valore ad probationem o ad substantiam del documento medievale. Non sono state risparmiate su questo fronte forze e intelligenza. Su opposti versanti della disputa i maggiori nomi della scienza giuridica contemporanea: Brunner, Brandileone, Astuti, Freudt, Rasi per fare solo qualche nome. Ebbene ognuno potrà constatare da sé come quella battaglia si giocò praticamente sul terreno del formulario notarile medievale mentre, sul piano dottrinale, gli opposti schieramenti spendevano analisi finissime e indagini ponderose allo scopo di dimostrare la vitalità di alcune formule, ovvero, al contrario, provarne la sostanziale sopravvivenza solo come veste priva di reale contenuto a ricordo di antichi istituti oramai da tempo scomparsi3.
Ancora a quel grande maestro di diritto e storia che fu Guido Astuti dobbiamo le analisi teoriche cui tuttora la dottrina giuridica fa saldo riferimento. Fermissimo assertore della “concreta unità del fenomeno della documentazione”4 contro quelle che venivano definite frequenti banalizzazioni circa la presunta separatezza medievale tra profilo processuale e profilo sostanziale del documento – che poi altro non era che la speculare proiezione ai tempi medievali della tradizionale distinzione tra instrumentum ad probationem e instrumentum ad substantiam che travagliava le pagine degli antichisti5 –, lo studioso riconosceva nel documento medievale anzitutto lo svolgimento di una “funzione giuridica di vera e propria forma contrattuale, come fonte formale di un vincolo obbligatorio astratto, funzione analoga a quella dell’antica stipulatio romana e della wadiatio germanica”, da cui la conclusione che “nella concezione materiale della efficacia della forma scritta, tipica dell’alto medioevo barbarico, l’elemento obbligatorio appariva come incorporato nel documento”6. Questa consistenza dell’atto contrattuale nella sua materiale costruzione concettuale creava però non pochi grattacapi allo studioso che doveva più volte ricordare come “nei documenti notarili dell’alto Medioevo sopravviva tenacemente, per effetto della ripetizione di formule antiche di carattere meramente tralatizio, il ricordo di istituti e principi giuridici appartenenti talvolta al remoto passato e sicuramente caduti da tempo in desuetudine; e come sia pertanto necessario sottoporre ad una vigile critica il contenuto di questi documenti, per evitare di confondere il nuovo con il vecchio, ciò che è vivo nella pratica giuridica del tempo, e ciò che invece è morto, mera reminiscenza storica dovuta unicamente al perpetuarsi dei formulari di stile, che è caratteristico del notariato di ogni tempo, e tanto più comprensibile in epoche di generale decadenza della vita e della cultura giuridica”7.
Per evitare dunque di cadere in grave errore e prendere per vivo ciò che vivo non era più, per sostanziale ciò che altro non era ormai se non pura veste formale, spesso male o punto compresa, bisognava passare ad attento vaglio “i formulari tipici del notariato medievale” dove si annidavano ancora formule tradizionali del tabellionato romano “anche quando queste più non corrispondevano alla realtà della prassi giuridica”; fenomeno, questo, che non mancava di dare singolari quanto aberranti risultati, come ad esempio nell’uso improprio della clausola stipulatoria che, unitamente all’uso ridondante di altre formule, finiva col rendere l’intero documento medievale sovraccarico di elementi formali talvolta acriticamente trasposti dagli antichi formulari tradizionalmente in uso8.
Per sentieri affatto diversi, con il dichiarato e costante proposito di comprendere quanto del diritto romano sopravviveva effettivamente nelle formule contrattuali usate nei formulari e nelle carte notarili di area franca tra vi e xii secolo, si dispiega la ricerca di una ancora per certi tratti insuperata storiografia giuridica francese, attiva scientificamente tra il xix e il xx secolo. Le ricerche, che prendevano spunto dall’analisi delle formule usate dai notai nelle carte o delle raccolte formulari redatte a scopo pratico, muovevano in sostanza dal quesito sul valore da attribuire al diritto romano richiamato variamente e frequentemente in quei documenti.
E la risposta offerta, in tutta evidenza, non poteva non chiamare direttamente in causa il sapere notarile e la sua cultura giuridica.
A partire dal quadro delineatosi nel periodo postclassico, quando la dialettica tra tradizione, rappresentata dalla cancelleria imperiale, e innovazione, vivificata costantemente da una prassi che sempre più premeva sugli istituti classici, si va risolvendo, almeno in parte, in favore del nuovo formalismo scritto9 e dopo aver registrato, per l’epoca romana, la “présence dans le formules d’une sorte de droit romain populaire formé des traditions de la pratique et qu’une distance toujours plus grande sépare du droit romain officiel”, Louis Stouff faceva notare come “à mesure que l’on pénètre au cœur du Moyen Âge, ces vestiges du droit romain s’effacent, en même temps que s’obscurcissent les notion juridiques” 10. A cadere sotto i colpi dell’ignoranza è un po’ tutto, clausola stipulatoria compresa, che diviene formula introduttiva per le sottoscrizioni, con tanto di adeguamento formulare da cum stipulatione subnixa a subscriptione subnexa. Nonostante i continui richiami formali alla legge romana, sotto i precetti della quale viene posto formalmente qualsiasi atto o istituto, la realtà rimanda insomma una conoscenza irrimediabilmente compromessa: “une fausse interprétation des constitutions impériales relatives à l’insinuation des donations contribua au développement de l’idée que, d’après la loi romaine, les contrats devaient étre faits par écrit”, creando quella falsissima equazione tra gestis allegatio, ancora ricordata nelle carte fino al secolo xi, e obbligatorietà dell’atto scritto11.
E le cose non migliorano certo nemmeno di fronte a quelle raccolte di formule che spesso rappresentavano l’unico approccio, per così dire, scolastico da parte di un ceto notarile che fin dall’epoca giustinianea, periodicamente, aveva attirato su di sé l’attenzione sovrana, non sempre benevola rispetto alla sua preparazione tecnico-giuridica12. L’analisi proposta del formulario di Tours13 dimostra come, per la redazione delle forme documentali dall’orizzonte conosciuto, sia oramai scomparsa ogni traccia di conoscenza della legge romana che, quando è citata – cosa molto frequente, giusta la necessità rimasta sentimento vivo, di ricoprire di quel nome qualsiasi cosa si dovesse rivestire d’autorità indiscutibile –, viene ripresa sempre da un qualche volgarizzamento, come l’interpretatio, fornita dal Breviarium Alaricianum14, rispetto alla quale le formule operano ulteriori semplificazioni e modifiche alla norma originaria, che allontanano viepiù gli istituti descritti dal modello cui pretenderebbero ispirarsi15.
A fronte del quadro ora sommariamente richiamato, ci sentiremmo, dunque, per concludere questa carrellata transalpina, di condividere ancora la perentoria ma, crediamo, realistica affermazione di Jacques Flach secondo il quale: “Les érudits qui, rencontrant dans un cartulaire quelque mention de la lex romana, ou quelque allusion plus ou moins exacte aux gesta, à la lex Julia ou à la quarte falcidie, se sont imaginé, à la suite de Raynouard, avoir affaire à du droit romain, ont fait erreur du tout au tout. Ils ont pris du plaqué pour du solide, un ornement postiche pour une pierre de soubassement, un débris fossile pour une plante vivace”16.
Ma certo sarebbe alquanto semplicistico attribuire tutto e solo a ignoranza. Quasi che l’uomo medievale rappresenti davvero quel ritratto di sprofondo intellettuale che per lungo tempo ha accompagnato l’immaginario di tanta scrittura storica e non. Anche quell’ignoranza è il frutto di un processo storico: si perde cognizione di ciò che non serve più e, col tempo, si disconosce lo strumento che privato del proprio ambito di utilizzo vede venir meno anche la sua originaria funzione. E l’ambito d’uso naturale del documento è sempre stato il processo: “È constatazione ovvia – tanto ovvia da non apparire forse inutile di ricordarla – che qualsiasi funzionalità si voglia riconoscere o discutere per il documento, nell’ambito del traffico negoziale, deve andar collegata a quella caratteristica che è indefettibilmente specifica di esso, e cioè la memorizzazione di fatti avvenuti, il che si traduce, nella prospettiva di una possibile controversia sugli stessi, nella precostituzione di un mezzo con cui provarne il reale svolgimento”17.
È dunque al cambiamento che il processo subì con la caduta delle istituzioni imperiali romane che si deve almeno in parte l’ignoranza della legge o, meglio, la sua rappresentazione riflessa, il suo travaso operato dalla prassi nelle formule documentali, che appunto a quel tipo di apprezzamento probatorio erano collegate.
Non un semplicistico imbarbarimento dunque, come ha scritto Gaudemet quando, ricordando la sostanziale differenza tra processo romano e processo medievale, cercava anche di evitare facili e superficiali analisi di inciviltà: “L’introduction des ordalies n’est donc pas seulement signe de décadence et de facilité. Elle tient aussi à un changement de mentalité, à la confiance accordée aux preuves fournies par la Divinité, c’est-à-dire à la reconnaissance de la supériorité de Dieu sur la raison humaine”18.
Ma cerchiamo allora molto brevemente di ripercorrere le tappe indicate dalla dottrina a proposito del rapporto processo-documento scritto, tenendo sempre chiaro lo sfondo del nostro problema: il formulario delle carte.
I. Il periodo post-classico
In epoca post-classica dal punto di vista processuale l’atto scritto si ritaglia nel tempo, sul piano del peso probatorio ricoperto, un ruolo sempre maggiore. Certo non è mai stata una strada semplice e lineare, come i romanisti insegnano da tempo19, quella che porta il documento scritto a soppiantare nella pratica altri formalismi e a diventare, accanto alla testimonianza orale, elemento di prova addirittura decisivo, come accade ad esempio con i documenti insinuati nei gesta pubblici. Il documento del resto, e proprio a causa di questa sua inarrestabile ‘ascesa’, diviene sempre più oggetto di attenzione da parte del legislatore, il quale, pur attraverso interventi contraddittori se non addirittura contrastanti, cerca sempre di imbrigliarne il libero sviluppo, che, lasciato nelle mani dei pratici, non soffre di alcuna chiara regolamentazione.
Come esempio risalente di intervento legislativo che trova immediata ripercussione formulare, per così dire, nelle carte si può citare senz’altro C. 4.64.2, costituzione con la quale Diocleziano, a proposito della permuta, stabilisce che Permutationem re ipsa utpote bonae fidei constitutam, sicut commemoras, vicem emptionis obtinere non incogniti iuris est20. Col tempo gli interventi cominciano a sommarsi, come quando ad esempio Costantino nel 316 stabilisce che in conscribendis autem donationibus nomen donatoris, ius ac rem notari oportet, neque id occulte aut per imperitos aut privatim, set ut tabulae aut quodcumque aliud materiae tempus dabit vel ab ipso vel ab eo, quem sors ministraverit, scientibus plurimis perscribatur (Th. 8.12.1). Non si tratta certo ora di entrare nel dettato di una norma importantissima, fulcro di dibattiti accesi tra romanisti, quanto di sottolineare come questo sia precisamente il caso di una legge che offre anche un indirizzo pratico per la redazione degli atti di donazione21. O ancora, possiamo ricordare i due interventi legislativi del 323 e poi del 337 (Fr.Vat. 249 e Fr.Vat. 35), con i quali lo stesso imperatore richiede, sempre per le donazioni, la redazione scritta advocata vicinitate e, per le vendite di immobili, sia l’inspectio censualis sia la presenza dei vicini al compimento del negozio22.
Poi, tanto per passare al capo opposto rispetto a quello costantiniano, altri esempi si hanno quando Giustiniano interviene ordinando la necessità sia della sottoscrizione delle parti sia della redazione del documento in mundum, ossia la bella copia tratta dall’originaria scheda (C. 4.21.17)23; stabilendo precise norme in merito alle modalità di assunzione e svolgimento dell’incarico da parte dei tabellioni; precisando funzioni e ruolo formale dei testimoni negoziali; ordinando l’uso di fogli aventi il protocollo (con nome del comes sacrarum largitionum dell’epoca e data di fabbricazione) (Nov. 73 e Nov. 44)24 e riformando il sistema di datazione ad uso documentario (Nov. 47)25; o infine quando, reagendo contro i verba superflua, quae in donationibus poni solebat, stabilisce che set et si quisquam per verbositatem aliquid tele inscripserit sive remiserit, nulla differentia sit (C. 8.53.37)26. Vorremmo, infine, ricordare l’esempio citato da Giannino Ferrari: “Nei γραμματα dei papiri è frequentissimo il verbo ομολογω, che in latino è reso con spondeo, ma Giustiniano, colla importantissima cost. 4 § 6 C. 2.55 (56) dell’a. 529, che si rivolge esplicitamente al mondo ellenistico, dichiara non necessario l’uso di tal verbo, riconoscendo valore obbligatorio alla semplice dichiarazione di volontà espressa con altri verbi”27.
Costantino e Giustiniano e, fra questi, tutti i sovrani che sono intervenuti sul problema della documentazione scritta, come Leone, che “vieta al tabellio di redigere per iscritto traffici di eunuchi, alienazioni di beni ecclesiastici, cessioni di beni in cambio di patronato (C. 4.42.2; C. 1.2.14.6 (3); C. 11.54 [53].1 pr.)”28, dimostrano il nesso costante presente tra legislazione, giurisprudenza, prassi tabellionale e formulario del documento29.
Una prassi dunque che aveva spinto il legislatore dapprima a prendere atto, quindi ad accettare e infine, in alcuni casi, a decretare la funzione costitutiva del nuovo formalismo della scrittura. Documento scritto che quindi veniva a configurarsi come elemento sempre più importante nel processo, per la cui redazione sempre più ci si affidava ad esperti confidando nella loro ‘scienza’30. Scienza e affidamento che si traducevano nelle formule, apparse probabilmente ai più – niente di diverso da oggi – alquanto incomprensibili, ma che si pensavano atte a proteggere meglio diritti e ragioni delle parti31.
È a questo che, in altri termini, possiamo riferire le proposizioni di Gian Gualberto Archi, quando, nel suo ancora oggi magistrale contributo Civiliter vel criminaliter agere, scriveva: “L’istrumento tabellionico che si chiama ora anche instrumentum publice confectum (C. 8.17.11.1 e Nov. 73 cap. 7), viene nelle costituzioni dell’epoca tarda presupposto come normale negli atti fra vivi, che importano alienazioni di beni e costituzione di diritti reali […]. E questa preferenza, che non esclude del resto il ricorso all’instrumentum privato anche in questi tipi di negozi (C. 8.17.11 a. 472), si spiega agevolmente con la difficoltà dei formulari in un’epoca di cultura ristretta”32. Ed è a questo che pensava anche Jean-Philippe Lévy quando scriveva: “Quel est dès lors le rôle des tabellions et pourquoi les parties recourent-elles à leur ministère? Ils sont en quelque manière des écrivains publics, chez lesquels on se rend d’abord parce qu’ils savent écrire – en un temps où l’instruction est assez peu répandue – et surtout parce qu’ils possèdent une certaine science juridique”33.
In altre parole è la stretta simbiosi tra intervento legislativo e documentazione a rendere necessario da parte dei pratici, per la confezione di una prova il più possibile inoppugnabile, la conoscenza e la traduzione formulare del dettato legislativo. Scrive a questo proposito Victor Crescenzi che il tabellionato romano andrà considerato “come strumentale a dare consulenza giuridica alle parti in ordine al compimento dei loro affari e le assiste nel compimento di negozi validi ed efficaci, formalmente inattaccabili, quindi stabili… L’aspetto della scrittura, allora, assume un rilievo di secondo piano e puramente derivato”34.
Ciò che dunque più ci preme sottolineare in questa sede è che la caratteristica fondamentale del formulario del documento tabellionale in quest’epoca è quella di essere una entità viva, costantemente animata e vivificata dal rapporto con la norma positiva. La legislazione entrava direttamente nell’azione della prassi imponendo, direttamente o meno, forme e formalismi che divennero, nel tempo e nella percezione comune, patrimonio dell’ordo tabellionale. Il documento scritto da questi prodotto, se è vero che non godeva sul piano probatorio di nessun particolare privilegio, come si è detto, aveva però il vantaggio di presentarsi, alla coscienza generale35, come fonte di maggiori garanzie processuali rispetto ad altri tipi di prova36.
II. Il periodo romano-barbarico
Come abbiamo sin qui tentato di descrivere in riferimento all’epoca tardoantica, vi è uno stretto legame che unisce attività normativa e attività tabellionale, rapporto che si rende esplicito e prende vita appunto nel dettato documentario, cioè nel formulario, che recepisce e traduce quelle norme in certezza giuridica, soprattutto ad probationem, ovvero in certezza processuale. Al contrario, “nel Medioevo cosiddetto barbarico vengono in luce nessi singolari tra i vari aspetti in cui si articola il problema della norma inteso nella sua portata più generica: il problema cioè dei modi in cui il diritto pone regole di comportamento. È uso di sempre individuare tali modi sulla scorta della distinzione delle tre fonti da cui l’obbligatorietà principalmente scaturisce – la legge, la consuetudine, il contratto –; ma è una distinzione che se in talune epoche storiche appare tracciata con rigidità, in altre si viene invece sfocando molto: e di tale sfocatura offre il migliore esempio, appunto, l’Alto Medioevo”37.
Vorremmo senz’altro usare questa considerazione come sfondo sul quale porre e illuminare, per le capacità che possediamo beninteso, il tema centrale del nostro dibattito, i formulari notarili appunto, nel tentativo di definirli meglio prima di tutto nella prospettiva storico giuridica, convinti, come siamo, che è in quella prospettiva, e in funzione di quelle esigenze, che i formulari fondamentalmente si creano, per poi diventare, se si vuole e anche legittimamente, oggetto di ricerca per varie ‘storie’, da quella diplomatistica a quella culturale, il che non dovrebbe però fare dimenticare mai quali necessità e quali funzioni primariamente questi svolgono e per rispondere alle quali sono sorti38.
Cerchiamo ora di cogliere al volo alcuni caratteri peculiari del cosiddetto Medioevo del diritto, tanto per parafrasare un celebre titolo, – sempre ovviamente in riferimento al nostro assunto –, sui quali oramai la dottrina è concorde.
Nonostante il progressivo e inarrestabile deterioramento dell’esistenza e della conoscenza della lex romana, “il diritto romano, ormai privo dei suoi raffinati meccanismi, conserva tuttavia un fascino quasi mitico il cui segno è la qualifica di legge che il linguaggio usuale continua ad assegnargli”39. Diverse le testimonianze in tal senso. Anzitutto le compilazioni romano barbariche, dalla Lex Romana Wisigothorum alla Lex Burgundionum passando per l’Edictum Theodorici, che attraverso quella dialettica tra lex mundialis romana e prima legislazione scritta dei nuovi popoli sovrani cercava di costruire nuovi assetti sociali e giuridici40.
Ma è la prassi, ancora una volta, a stabilire una commistione tra istituti romani e barbarici: “istituti longobardi come la wadia e il launegild, o addirittura capitoli di Rotari, compaiono nei documenti sotto l’etichetta della lex romana”41. Così non solo si dà una veste romana a ciò che romano non è al solo evidente scopo di nobilitare istituti e consuetudini proprie42, ma addirittura si utilizzano a Piacenza, ancora nel secolo viii, vecchi formulari di quella mancipatio che già Giustiniano aveva abolito43. Un nomen dunque, quello di lex romana, privo ormai della sua originaria identità, che affida il suo corpo non più al codice scritto “ma piuttosto a formulari notarili di contenuto ondeggiante, a epitomi rozze o a qualche serie di regolette che i giudici usano come falsariga incerta delle loro decisioni”; ondeggiamenti, che permettono, tra l’altro, “la frequente emersione della parola lex nel significato di obbligazione privata”, come dimostrano le equivalenze espressive presenti nelle carte longobarde tra “ea condicione et lege” ed “ea condicione et pacto”44.
Questo stato di cose, nel quale la legge romana viene nominalmente chiamata a coprire un vuoto sempre maggiore dovuto sia a una sempre maggiore rapsodicità dell’intervento legislativo sia alla caduta libera del momento interpretativo e speculativo, con il progressivo avanzare del Medioevo non fa che peggiorare: oscillazioni, sovrapposizioni, epitomazioni, semplificazioni, in una parola impoverimento e scomparsa, perché “se il legislatore è lontano o inesistente, e quindi avaro di norme, ancor di più viene avvertito il vuoto della voce dell’interprete e della dottrina che aiuti a recuperare, secondo un preciso disegno giuridico, un uso deviante o nomi negoziali non correttamente invocati dai soggetti per definire i rapporti giuridici che li legano”45.
Insomma il legislatore non guida più la prassi con norme precise e dirette, non indica più al notariato la strategia migliore per garantire i diritti processualmente, non ne argina più le intemperanze orientate sempre alla sopravvalutazione del proprio ruolo e del proprio prodotto, il documento notarile. E quando se ne interessa, come fa Liut. 91, lo fa solo per dichiarare che l’accordo delle parti “recante la rinuncia a posizioni giuridiche attive attribuite da una norma, se documentato, prevale sulla norma stessa”, ovvero che si possono compiere atti difformi dalla norma stessa46.
In una parola i due mondi si separano. E segno evidente di questo scollamento sono proprio i formulari dei documenti. Chiunque abbia frequentato, anche solo superficialmente, la diplomatica medievale, sa benissimo di cosa si stia parlando: formule male interpretate, richiami a istituti inesistenti da secoli, difficoltà manifesta a gestire giuridicamente qualsivoglia azione che esca da un qualsiasi formulario stereotipato, formulari diversi usati per documentare il medesimo negozio, formulari usati indistintamente per negozi differenti. Parlando dei documenti privati del periodo longobardo, lo Schiaparelli notava come “un carattere generale, che colpisce subito chi li esamina rispetto al formulario, è la varietà dei caratteri diplomatici secondo i territori […] e come essi non si possono ridurre ad un unico formulario, così non sembra che i loro scrittori avessero un comune modello da imitare”47. Potremmo dunque parlar, sulla scorta di Giovanna Nicolaj, di particolarismo diplomatico, richiamando l’efficace espressione di particolarismo grafico designata, sempre per i secoli medievali, dal Cencetti48. D’altronde questo fenomeno che, proseguendo nel parallelo paleografico, potremmo definire di corsivizzazione diplomatistica, ovvero di allontanamento e dissoluzione di un “canone” formulare, è altresì influenzato da un progressivo processo di contaminazione, sovrapposizione e successive influenze di tradizioni giuridiche e formulari fra loro molto differenti. Infatti, come già avvertiva l’Astuti, “uno studio sistematico dei diversi formulari locali e regionali e dei loro reciproci rapporti, non è ancor stato compiuto; e non occorre sottolineare le molteplici difficoltà che questo studio presenterebbe, per le gravi lacune che pur si accompagnano alla ricchezza e varietà del materiale documentario, e per le difficoltà di classificazione di tutta una serie di formule, vecchie e nuove, di stile e particolari […]. Questo studio dovrebbe, d’altra parte, affrontare il problema dell’uso della legge romana secondo formulari pregiustinianei, giustinianei, e postgiustinianei; poiché non mancano nei documenti italiani tracce anche notevoli di diritto teodosiano e di diritto bizantino”49.
Da qui, comunque, il giudizio severo dei giuristi che a questo tema si sono dedicati e con i quali abbiamo voluto aprire questo intervento, per i quali, infatti, “scribi e notai ricopiavano e riproducevano senza discernimento il contenuto degli atti più antichi, o dei formulari tradizionalmente in uso, senza un preciso riferimento alla concreta realtà dei rapporti documentati”50. Chi guarda a queste carte con gli occhi del diritto classico, o di un qualsivoglia diritto normato con una qualche efficacia, non può che provare sorpresa, quando non proprio sconcerto, di fronte a quel procedere affannato dei nostri documenti medievali. Non esiste diplomatista che non sia rimasto perplesso e indeciso almeno una volta nel tentativo di discernere il negozio documentato, e non sia stato costretto, in qualche caso a richiamare direttamente il verbo o le clausole originali utilizzate, in luogo di qualsiasi tentativo di interpretazione51. E chi le ha guardate per maggior tempo, e forse con più attenzione, ha spesso registrato una caratteristica tipica nella pratica del notariato medievale: quella di chi, lasciato scoperto dalla norma positiva, cerca comunque di proteggere giuridicamente ciò che fa e a questo scopo trasforma di fatto il documento in un bacino dove si precipita e si ferma tutto il possibile, un arcipelago che raccoglie tutto ciò che può: ciò che è ridondante, ciò che non serve, ciò che non esiste più, tutto pur di mettere insieme più materiale possibile a protezione e difesa di ciò che si scrive52.
Lo ricordava per la prassi tabellionale ravennate del VI secolo Jan-Olof Tjäder, quando scriveva che “i tabellioni non toglievano volentieri dai formulari termini o frasi che una volta vi erano state inserite, ed avevano in generale una forte inclinazione a conservare le espressioni o le forme già esistenti nei formulari, anche se, dal punto di vista contenutistico, un ritocco si rendeva opportuno. Vi era certamente in questo loro atteggiamento una buona dose di cautela: non si saranno sempre sentiti in grado di giudicare quale cosa dovesse essere cancellata e quale no, e avranno allora scelto l’espediente più sicuro”53. E lo richiamava ancora, questa volta su un piano storico-istituzionale, Giovanni Tabacco: “Un fatto complesso di cultura, non orizzonte elementare di vita, è all’origine dell’ibrido e sconnesso linguaggio delle carte e dei diplomi, a noi giunti come testimonianza di quel groviglio di ambizioni: carte notarili e di cancelleria, dove le formule si accumulano nello sforzo di esprimere volontà perentorie su cose e diritti. Non si tratta soltanto della consueta difficoltà di trasporre voleri e propositi in formule, ma di reale sovrapposizione di concetti e istituti”54. Mentre su un piano squisitamente giuridico ancora l’Astuti si soffermava a considerare la presenza di quel “complesso di formule, di clausole, di espressioni tradizionali, riprodotte ed usate assai spesso fuori luogo e in modo spropositato […] in quanto sovrabbondante di elementi formali e sostanziali di carattere tralatizio”55. Dottrina, questa, raccolta in quella mirabile sintesi diplomatistica nota come teoria dell’accrocco56.
Si tratta in fin dei conti del medesimo dilemma che già stava di fronte al Tjäder quando si domandava: “in questo stato di cose, con formulari difettosi e poco coerenti, pieni di espressioni contaminate o anacolutiche, di frasi o parole conservate in modo rudimentale e senza significato, di espressioni che non più corrispondevano al senso previsto, di frasi completamente insensate […] in questo stato dunque non possiamo non domandarci: come funzionava il tutto? Non vi fu mai un controllo, non si procedeva mai a una revisione autoritaria dei formulari dal punto di vista formale e linguistico? Direi di no: sembra che su questo punto la responsabilità sia stata lasciata esclusivamente ai tabellioni”57.
Perché dunque i notai medievali furono lasciati soli a gestire formule e clausole dei documenti; come spiegare il disinteresse del legislatore alla confezione del documento, causa prima della progressiva separazione tra norma e formule documentarie e che ebbe come ovvia conseguenza proprio il “crollo dei formulari”58 nei nostri documenti tabellionali59?
Per rispondere in maniera almeno approssimativamente esauriente a questi quesiti, è necessario, come si è detto, inquadrare il problema nella prospettiva, senz’altro più adeguata, del valore e dell’importanza riconosciuti al documento scritto nel panorama probatorio del processo germanico-medievale (intendendo con questo termine il periodo che si conclude con la Rinascita giuridica), cioè nell’ottica lucidamente indicata già da Francesco Calasso del “problema storico del rapporto […] indissolubile tra documento e processo”60. Né pare superfluo a questo proposito ricordare con l’Astuti, che il documento nasce soprattutto, anche se non esclusivamente, come tutela, e che “i caratteri essenziali di un ordinamento si rivelano con chiarezza, prima ancora che nei diversi istituti del diritto pubblico e privato, nelle forme storiche della tutela giuridica, ossia negli istituti processuali: il processo è infatti il momento fondamentale dell’esperienza giuridica, tanto sotto il profilo della tutela e dell’accertamento del diritto oggettivo, quanto sotto il profilo della difesa e concreta attuazione dei diritti soggettivi”61.
Tra norma e prassi si pone insomma il processo.
Ed è al processo che a nostro avviso bisogna rivolgersi per capire l’altrimenti poco comprensibile atteggiamento del legislatore, molto meno interessato che in passato a regolare l’attività del notaio, e l’assoluta libertà con cui questi redige documenti utilizzando, magari senza capirle, o semplicemente non utilizzando, formule e clausole diversissime per il medesimo negozio o addirittura rimettendo in vita ciò che era morto e sepolto da secoli. Quello che nel processo vive è diritto, quello che nel processo muore è nulla. Ed è esattamente per questo che si va da un notaio: farsi fare un documento significa, nella percezione comune, garantire i propri diritti. Ed è dunque nella prospettiva processuale che meglio si può apprezzare quanto, nelle diverse epoche, il documento scritto sia stato capace di tutelare i diritti vantati.
III. Il processo germanico
Com’è noto, il processo longobardo, in quanto sostanzialmente giudizio ordalico, risulta diretto “non già all’accertamento della verità dei fatti, alla formazione del convincimento del giudice e alla conseguente decisione di merito secondo il diritto, bensì unicamente ad un regolamento formale, atto a dirimere la lite mediante un giudizio di prova, ossia mediante un provvedimento con cui il giudice regola la prova, rimettendo all’esito di un esperimento probatorio di valore definitivo, nelle forme tradizionali del sacramentum e della pugna, la decisione della causa”62.
Nel sistema normativo longobardo “non sono esplicitati né una precisa funzione né un concreto valore del documento in sede processuale, tali per sé comunque da definire la lite. Al documento non viene assegnata neppure l’efficacia di piena prova legale o almeno di prova, posta su un piano diverso dagli altri eventuali mezzi di prova previsti. La prova ordalica, che continua a decidere la lite, non consente neppure di apprezzare direttamente la prova per documento”63.
In questo sistema processuale la charta non assume quindi mai “il valore di prova formale, decisoria della lite; essa costituisce elemento su cui fondare una richiesta o una difesa nel processo, da contrapporre rispettivamente all’eccezione o alla domanda altrui; il giudizio si risolve in ogni caso con i mezzi di prova ordalica, il giuramento e il duello”64. La consuetudine rimarrà comunque nel tempo la “vera ispiratrice di ogni norma”, come dimostra “la sconsolata confessione di Liutprando che, pur convinto dell’ingiustizia di affidare al duello la definizione di talune delle più gravi controversie, si dichiara impotente ad abrogare una consuetudine della sua gente longobarda”65.
A dimostrazione di quanto si è venuti sin qui esponendo si può richiamare almeno quel particolare procedimento detto per ostensio chartae. Lasciando da parte la polemica tra chi vedeva in questa procedura una sorta di processo apparente e chi, al contrario, sosteneva trattarsi esclusivamente della caratteristica evoluzione tipologica della documentazione processuale66 – totalmente anodina nella nostra prospettiva attuale –, importa qui rilevare come tanto più insicura appariva la tutela dei diritti, in un sistema probatorio di fatto imperniato su giuramento e duello, tanto maggiore doveva manifestarsi la necessità della ricerca di ulteriori garanzie atte a prevenire eventuali impugnazioni dei propri documenti. Che potevano essere trovate, ad esempio, proprio attraverso questo peculiare processo, il cui scopo era quello di “ottenere la pubblica conferma e convalidazione della charta concernente un rapporto contrattuale non controverso, e con essa l’accertamento del diritto, nella forma della decisione giudiziaria su un diritto contestato, mediante notitia iudicati inattaccabile”67. Con il ricorso all’ostensio chartae “si dà più forza al documento, attraverso la conferma – confessio – della parte convenuta della validità della scrittura”68 consentendo in tal modo di “sostituire una situazione giuridicamente certa a una incerta”69: il diritto incerto, rappresentato appunto dal documento, diviene grazie a questo procedimento assai più sicuro e garantito, perché promanato da un diretto delegato dell’autorità pubblica che, in ultima analisi, altro non è se non quell’autorità stessa70.
A cosa si deve dunque questo sostanziale e sensibile arretramento del documento scritto dal primo piano del sistema probatorio medievale?
Per rispondere potremmo prendere ancor oggi a prestito alcune delle conclusioni di quella esemplare ricerca dedicata alla gerarchia delle prove che Jean-Philippe Lévy condusse nei primi decenni del secolo xx, e che le scoperte contemporanee di nuove fonti o le ‘modernissime’ letture di quelle già conosciute71 non hanno scalfito in nulla della loro solidità: “Durant les siècles qui suivirent les invasions, les modes de preuve rationnels, écrit et témoignages, déclinèrent rapidement, cependant que se développait le rôle et l’autorité des modes irrationnels… Quant au duel judiciaire, il devint la preuve des preuves, servant de moyen général pour contrôler la valeur des autres preuves, pour fausser en particulier les écrits et les serments. C’était donc lui qui figurait au sommet de la hiérarchie des preuves… Le système établi à la fin de l’époque carolingienne se caractérisait donc par la préférence des preuves irrationnelles”72.
Insomma, nel ix e nel x secolo e anche per tutto il secolo successivo il documento scritto, ereditato dal mondo romano, viene attirato all’interno del sistema probatorio germanico dominato dalle prove irrazionali, dove anche l’accusa di falso fatta in giudizio, nella sostanza, altro non è se non “un atto per passare alle prove ordaliche”73.
Dunque è questo scivolamento verso il basso sopportato dalla prova documentale nel processo medievale a rappresentare ad un tempo causa ed effetto della separazione tra norma e formulario notarile di cui si è parlato.
Due direttrici strettamente connesse fra loro agiscono, per concludere, sul documento notarile: un legislatore che sostanzialmente non prosegue più, non avendone l’interesse e la capacità legislativa, nella politica operata a suo tempo dalla cancelleria imperiale romana tesa a chiudere il documento all’interno di spazi normativi chiari, costringendo il ceto professionale dei tabellioni a confrontarsi con precetti che intervenivano direttamente sulla propria attività e sul prodotto finito di questa, il documento appunto74, e, seconda direttrice, il processo che va inesorabilmente germanizzandosi e che mette al centro del sistema probatorio le prove ordaliche. Sono queste le cause, crediamo, che hanno giocato a favore di quello che è stato autorevolmente definito “il crollo dei formulari”75.
IV. Il XIII secolo bolognese: la scuola di ars notariæ
Lo scenario appena abbozzato serve da sfondo e da riferimento storico-giuridico all’analisi delle vicende editoriali, scientifiche e politiche che videro contrapporsi nella Bologna della metà del Duecento due tra i più grandi maestri di ars notaria: Rolandino e Salatiele. Da un lato il principe dei notai bolognesi, dall’altro colui per il quale questo principe non era altro che un lividus hostis76. Crediamo infatti che, a conti fatti, la storia appena raccontata più che un contorno sia il vero nodo intorno al quale si contrapposero i due capiscuola.
Il periodo storico in cui si cala la loro vicenda, il xiii secolo, rappresenta un momento decisivo di ricostruzione del rapporto tra legislazione e prassi notarile che si estrinseca nel formulario e che proprio nel corso di questo secolo si arricchisce di un altro elemento: la riflessione teorica e dottrinale della scuola bolognese77. I maestri di ars notariae, incoraggiati dal vivace dibattito scientifico che aveva animato lo Studium e influenzati dai nuovi metodi appresi dal contatto con i doctores, pongono mano alla loro materia con intenti di sistematizzazione scientifica e danno alla luce una lunga lista di formulari e opere di stampo più o meno teorico che si susseguono e si rinnovano con ritmo incalzante nel corso del secolo, sotto la spinta delle esigenze sempre più pressanti che giungono dalla società e dai nuovi organismi di governo comunali. Così vediamo il secolo aprirsi con il cosiddetto Formularium tabellionum pseudo-irneriano, databile tra la fine del xii e gli inizi del xiii secolo, seguito qualche anno dopo dalle due importanti raccolte di formule di Ranieri da Perugia, il Liber formularius (1214-1216) e l’Ars notariae (avviata già nel 1223, ma ascrivibile agli anni Quaranta del xiii sec.); nel 1235 circa è la volta quindi dei formulari di Bencivenne e Martino da Fano, accompagnati agli inizi degli anni Quaranta dalla Summa notariae dell’Aretino (1240-1243) e dalla Summa di maestro Zaccaria (seconda metà del xiii sec.). Negli stessi anni, e più precisamente nel 1242-1243, vede la luce la prima stesura dell’Ars notariae di Salatiele, sostituita tra il 1242 e il 1254 dalla seconda redazione dell’opera, accompagnata successivamente dalla Summula de libellis formandis dello stesso autore; il 1255 è invece l’anno della Collectio contractuum di Rolandino Passaggeri, cui seguiranno a distanza di qualche tempo il Contractus domini Rolandini (fine xiii) e soprattutto la glossa dell’Aurora (1273) che assieme all’Aurora novissima di Pietro d’Anzola e all’Aurora novella di Pietro Boattieri (fine xiii) confluirà in ultimo nella Summa totius artis notariae rolandiniana (inizi xiv sec.)78.
La produzione di raccolte di modelli di formulae ad uso dei notai non è, naturalmente, un fenomeno nuovo per il Medioevo79. Tuttavia, vale la pena ribadirlo, le opere che vedono la luce ora si distinguono perché frutto del clima nuovo prodottosi a Bologna con il sorgere prima dello Studium e poi della scuola di ars notariae, che sollecita la riflessione dottrinale anche tra i notai e la necessità, avvertita da una parte almeno del composito ceto notarile, di dare fondamenta culturalmente più solide alla propria preparazione professionale80. Infatti, è solo a partire dal xii secolo, sotto l’evidente influsso della scuola bolognese di diritto, che “assistiamo, secondo il preciso giudizio del Brunner, ad un vero e proprio ‘rinascimento diplomatico’, caratterizzato dalla introduzione di un nuovo formulario, inconfondibile con i precedenti per le clausole, per la terminologia, per lo stile veramente tecnico e di intonazione quasi scientifica”81. D’altra parte, in questa direzione spingevano anche la nascita del Comune, che per la sua giovane ma già complessa struttura organizzativa aveva sempre più bisogno di notai e, più in generale, la vigorosa accelerazione impressa alle attività economiche, commerciali e mercantili, che richiedevano strumenti di tutela giuridica aggiornati, cioè in altre parole una adeguata documentazione82.
E’ questo senza dubbio un tema studiatissimo e largamente sondato dalla medievistica contemporanea. Noti sono ormai l’ambiente, le fisionomie dei protagonisti, le linee di sviluppo, e pubblicati nella maggior parte dei casi sono i testi e le opere83. Potrebbe dunque apparire inutile, o addirittura velleitario, tornare ancora su questo argomento che fu carissimo, tra gli altri, a maestri del calibro di Giorgio Cencetti e Gianfranco Orlandelli. Ma esso ci pare estremamente interessante proprio per la nuova attenzione che allora si viene riservando alle formule e al dettato dei documenti. Sulla concezione e sulla funzione del formulario si giocherà infatti l’aspra partita che vede opporsi i due maestri di cui intendiamo qui occuparci, Salatiele e Rolandino.
Norma e formulario, legge e tutela processuale offerta dal documento. Questo vincolo, che il medioevo aveva dapprima allentato e poi progressivamente quasi sciolto, secondo un processo le cui linee di fondo abbiamo cercato di ripercorrere sopra, si ripresenta ora, nella Bologna del secolo xiii, con tutta la sua forza. Legge e formulario, dialettica riemergente e viva. E dirompente al punto da concentrare su di sé le migliori menti che secoli di prassi erano stati capaci di forgiare. Ars notariae e Summa totius artis notarie, si misurarono prima di tutto e soprattutto sul modo di intendere questo rapporto. È dunque in questa prospettiva che vorremmo tornare sul tema e fare ancora qualche osservazione in proposito.
V. Salatiele e Rolandino Passaggeri
Salatiele e Rolandino: due protagonisti di primo piano della Bologna della metà del xiii secolo, due uomini divisi in tutto, nella professione, nel magistero, nella politica. Una distanza irriducibile li separa, loro pur così vicini nel tempo e nello spazio, una diversità incolmabile e livorosa che affonda le sue radici nel diverso modo di intendere la società tutta e le forze che la governano ma prima ancora, e soprattutto, nel diverso modo di concepire la propria arte84. Sono loro ad incarnare, per buona parte del xiii secolo, le diverse anime della Societas notariorum.
I fatti e le idee che stanno all’origine della loro contrapposizione sono ormai noti, grazie in primo luogo alle attentissime ricerche di Gianfranco Orlandelli, ma non sarà inutile ricordarli qui brevemente.
“Quadam iuris civilis particula que vulgo dicitur notaria”85: in queste parole, tante volte ricordate dagli storici, si condensa icasticamente la concezione che Salatiele ha dell’ars notariae, un brandello di firmamento che dal cielo del diritto è caduto e che in quel cielo deve tornare a splendere. Coerentemente con questa idea, la sua opera si caratterizza come un “coraggioso tentativo d’immettere anche la notaria […] nel sistema della scienza, cosa tanto singolare da far sospettare che il Salatiele tenesse cattedra di notariato tra i giuristi”86.
Rispetto al panorama coevo, infatti, il testo, specie nella sua prima redazione, si distingue subito per l’enorme sproporzione della parte teorica su quella formulare: tre libri dedicati alla prima (I: persone, cose, azioni; II: contratti e patti; III: testamenti e ultime volontà) e uno solo, che “assume tutto l’aspetto di una appendice di documenti apposta ad un trattato, più che di un vero e proprio formulario notarile”87, dedicato alla seconda (De instrumentis confitiendis refitiendis et exemplandis). Se è vero infatti che già il Liber formularius e l’Ars notariae di Ranieri da Perugia “presentano sin dall’inizio un carattere sia teorico che pratico, contenendo non solo modelli negoziali ma anche spiegazioni di natura teorica relative agli istituti contemplati nelle formule stesse”88, quello di Salatiele è però un vero e proprio “trionfo della teorica sulla pratica”89, nel quale la sezione dottrinale diviene il perno centrale attorno al quale ruota tutto il resto, “il verbo stesso di quelle formule che nella pratica apparivano spesso usate impropriamente, o corrotte, o fraintese”90 e che quindi dovevano essere ricollocate nella dimensione di una dottrina salda e certa come quella di Azzone e di Accursio. Solo adeguando “pratica e teorica del notariato al livello della dottrina giuridica”91, quelle formule avrebbero potuto ergersi a garanzia certa di diritti, farsi baluardo saldo e inattaccabile; solo in questo modo si poteva bandire dal notariato quel turpe crimen artis ignorate attraverso cui si spalancano le pericolose vie che portano al processo, non a caso escluso dal piano editoriale dell’opera92. Il salto rispetto ai lavori prodotti a Bologna fino a quel momento è completo, e anche i pur notevolissimi affondi di Ranieri sul terreno dello ius civile appaiono rispetto a Salatiele solo timide incursioni.
Ma si tratta di un salto che non attecchisce nella successiva produzione dottrinale della scuola notarile bolognese, se già nel 1255 con l’uscita della Collectio contractuum di Rolandino si torna all’impostazione tradizionale: in evidente polemica con il suo rivale, l’opera del Passaggeri si configura infatti come un puro formulario, “una raccolta di documenti deliberatamente nuda di qualunque apparato, priva di qualsiasi disquisizione teorica”93, che si ricollega direttamente alla tradizione locale. Di questa tradizione, radicata nella teorica dei quattro istrumenti94, Rolandino coglie le fila e diviene anzi il culmine espressivo portando a compimento quel processo che aveva avuto avvio già con il Formularium tabellionum pseudoirneriano e nel xiii secolo si era incarnato quindi in Ranieri da Perugia95.
Certo, l’esperienza di Salatiele – nonostante la sua fin troppo ostentata damnatio memoriae – non è passata invano e alcuni dei suoi frutti si ritrovano proprio nell’opera rolandiniana96. Ma non c’è dubbio che quello di Rolandino sia un ritorno al passato, un impianto programmaticamente assai più conservatore, per quanto denso di cultura tecnico-notarile. La vera novità sta, semmai, nella sostanziale apertura all’ambito pubblico e amministrativo, giacché per quanto riguarda la distribuzione della materia e soprattutto la piena accettazione della materia processuale l’imperialis auctoritate notarius non fa che portare a compimento i tentativi già messi in atto da Ranieri97.
L’esito di questo scontro dottrinale fra magistri, ad ogni modo, è noto e portò senz’altro alla sconfitta di Salatiele. Sulle ragioni di questo risultato, tuttavia, oltreché sui modi e tempi di esso si può ancora discutere, se non altro per ripulire un po’ la vicenda da quei luoghi comuni e stereotipi che come polvere nel tempo hanno ricoperto le spalle dei suoi protagonisti. Il quadro dipinto dalla critica ha invero accentuato in maniera forse eccessiva i toni di questa sconfitta, disegnando un Salatiele travolto sul piano scientifico dall’atteggiamento più attuale e moderno di Rolandino e costretto ad una resa pressoché immediata. Gli storici hanno teso ad evidenziare soprattutto le numerose critiche che l’uscita dell’Ars notariae dovette subito sollevare98 – la voce di Rolandino, nonostante il suo ostentato silenzio in proposito, si percepisce come un sottofondo costante – tanto da indurre il suo autore ad una nuova redazione, che si presenta smorzata nei toni polemici e parzialmente rivista anche nei contenuti, cui l’autore attese tra il 1242 e il 1254. Nemmeno questo tentativo, però, dai risultati peraltro piuttosto disorganici99, valse all’opera di Salatiele un maggior successo di pubblico. L’uscita del formulario di Rolandino nel 1255, ad appena un anno di distanza, infatti, avrebbe chiuso del tutto la partita soppiantando completamente l’opera del rivale100.
In questa ricostruzione, tuttavia, le figure dei due notai hanno assunto toni un po’ troppo convenzionali e Salatiele, specialmente, è stato tratteggiato troppo spesso come un uomo fuori dal tempo, se non addirittura senza tempo. Un raffinatissimo intellettuale, di cui non si mancano di riconoscere la bravura e la capacità di analisi, ma di cui si mettono costantemente in luce la tendenza eccessiva all’astrazione e l’aristocratico distacco rispetto alle istanze più concrete della prassi101. Un uomo sofisticato, freddo e non scevro da una certa alterigia, adatto più alle disquisizioni teoriche di un aula che alla realtà concreta dei suoi tempi e per questo sostanzialmente isolato nella Bologna degli anni ’50 del xiii secolo. Una concezione aristocratica la sua, giudicata sostanzialmente avulsa dal mondo pullulante e in rapida trasformazione che lo circonda, tanto più se confrontata con il solido pragmatismo di Rolandino102.
Anche questo, però, crediamo sia un mito da sfatare. Salatiele, è verissimo, rompe consapevolmente, anzi programmaticamente con la tradizione formularistica che da sempre aveva caratterizzato il notariato, non solo bolognese. Ma l’immagine di solitudine scientifica e umana che la storiografia di lui ha tracciato, sic et simpliciter, appare a nostro avviso troppo riduttiva e limitante. Vi sono infatti fonti e circostanze alle quali non si è prestata forse la debita attenzione e che, pur non modificando il quadro nel suo insieme, possono servire comunque a dare una più compiuta valutazione della sua opera e forse anche a restituire a Salatiele un po’ della sua perduta umanità. Soprattutto crediamo che la sua vicenda debba essere letta e interpretata, per essere compresa a fondo, alla luce di quel rapporto articolatissimo e complesso che storicamente il formulario e il documento intrattengono con la legislazione e con il processo.
VI. Le condizioni generali del notariato bolognese
Anzitutto vi è un fatto, o meglio un antefatto, che va tenuto presente e che a noi sembra essere fondamentale: la nuova impostazione che egli dà alla prima redazione della sua Ars notariae risponde, o almeno tenta di rispondere, ad un problema concretissimo e assai vivo a Bologna per lo meno dall’epoca di Ranieri: quello della preparazione professionale e del livello culturale dei notai103. Si tratta di un problema serio, divenuto sempre più urgente col rapido evolversi della situazione socio-economica e politico-istituzionale e con il parallelo aumento della domanda di documentazione. Su questo aspetto è necessario insistere, aprendo qui una breve parentesi, perché centrale per capire tutta l’opera di Salatiele, il contesto in cui essa si viene ad inserire, gli intenti che la muovono e dunque le ragioni delle scelte compiute dal suo autore.
Di quanto fosse grave il problema, ci si potrà rendere meglio conto dando un occhio ai numeri e osservando un po’ più da presso il quadro sociale. La nuova Bologna comunale della metà del xiii secolo, che vede la rapida avanzata del ceto mercantile e artigianale e la progressiva affermazione politica dei populares104, brulica di questi tecnici della documentazione. Nella costituenda repubblica dei notai bolognese, per richiamare la felice espressione coniata da Gianfranco Orlandelli, la quantità di tabellioni che si aggirano per le vie della città lavorando nelle stationes o nei vari uffici comunali raggiunge cifre impressionanti, sia in assoluto sia in rapporto alla popolazione allora vivente fra città e contado105, “in netta controtendenza […] con l’andamento demografico cittadino che, cresciuto tumultuosamente fra xii e xiii secolo, aveva poi subìto un brusco ridimensionamento con la prima cacciata dei ghibellini nel 1274 e un vero e proprio tracollo con la peste del 1348 e le ondate epidemiche successive”106. La situazione è stata ben descritta da Gina Fasoli: “I notai […] erano presenti in tutti i centri del potere: c’era un notaio in ogni società del popolo – di mestiere e d’armi – con funzioni di segretario; c’erano dei notai in tutti gli uffici comunali, in tutti i consigli cittadini, in tutte le commissioni tecniche o amministrative o politiche, nominati in quanto notai, con funzioni di notai; ma ce n’erano anche molti altri, nominati nei vari consigli, nei vari uffici, in quanto cittadini noti e stimati”107.
Se ciò è vero, sarebbe però fuorviante immaginarsi un ceto fortemente compatto e omogeneo al suo interno. Le ricerche che hanno affrontato il tema della composizione sociale del notariato bolognese, ancorché poco numerose e forse un po’ datate, hanno infatti messo in luce l’estrema divaricazione e la diversa collocazione sociale ed economica dei suoi membri108: accanto a vere e proprie dinastie notarili sono sempre più numerosi i casi di homines novi, “figli di medici, di giudici” ma anche “figli di artigiani che avevano desiderato per i loro figli un maggior prestigio sociale”109. Un arcipelago vastissimo, verso il quale faceva rotta una larga umanità non sempre interessata a praticare concretamente la professione o che non faceva della professione l’esclusivo mezzo di sostentamento e che doveva comunque confrontarsi con una forte concorrenza interna alla corporazione, come si desume dalla presenza negli statuti della società dell’anno 1288 – giustamente messa in rilievo da Valentini – di una norma “relativa alla cancellazione dalla matricola di coloro che non avessero esercitato l’officium tabellionatus o lo avessero fatto solo di rado”110. Accanto a notai affermatissimi e assai attivi sia per numero di documenti rogati sia per incarichi pubblici ricoperti, doveva convivere, insomma, una fittissima schiera di indistinti e anonimi praticanti la professione con assai minor successo111.
A questa forte differenziazione sociale interna alla categoria doveva peraltro corrispondere una analoga, se non più accentuata, disparità culturale112. Una persuasiva descrizione di come doveva presentarsi, all’epoca, il panorama culturale offerto dalla Societas notariorum ci è stata offerta da Roberto Ferrara: “Il rapido incremento del ceto tabellionale bolognese, divenuto particolarmente intenso tra gli ultimi decenni del xii secolo ed i primi del xiii, aveva certamente acuito il divario numerico e culturale fra chi, mettendo a profitto le risorse che un ambiente come quello bolognese poteva offrire, aveva con scrupolo cercato di acquisire gli strumenti necessari per meglio operare e gli altri invece, certo assai più numerosi, che, sulla base della licentia conferita dal privilegio, strumentavano alle proprie esigenze gli elementari rudimenti di una cultura e di una tradizione superate, utilizzando in modo pedissequo formulari correnti, ovvero anche facendo ricorso al modello degli instrumenta rogati da altri notai”113.
È possibile quindi mettere a fuoco con un grado maggiore di realismo una umanità dove si muovevano e agivano alcune personalità di elevato prestigio, dotate di tutti gli strumenti culturali e professionali necessari per essere protagoniste delle epocali trasformazioni in atto nella società, accanto alle quali operava però una massa ben più ampia di individui che viveva passivamente grazie alla reputazione che altri avevano guadagnato e proiettato sull’intera categoria114. E lo iato fra questi due estremi doveva farsi non di rado ben visibile. Visibile, e insopportabilmente fastidioso, era di certo questo divario agli occhi di due eminenti rappresentanti della cultura bolognese del tempo: il legum professor Odofredo e il maestro di ars dictandi Guido Fava. Un giurista e un dettatore figlio di notaio – che per un breve periodo della sua vita esercitò a sua volta la professione paterna –, entrambi insigni maestri dello Studio bolognese e dunque autorevoli esponenti della cultura cittadina dell’epoca nelle sue due massime espressioni, il diritto e l’arte del bello scrivere. Sono le loro stesse parole, nella loro icastica sinteticità, a restituirci un quadro estremamente vivido e efficace della situazione: Odofredo osserva i notai della sua città e non vede altro che rudes tabelliones; Guido, dal canto suo, che probabilmente per necessità finanziarie ricorre ad tabelllionatus artem e dunque tocca con mano l’ambiente, non risparmia il sarcasmo e li paragona ai cerdones, i conciatori di pelle, vili artigiani che si sollazzano immersi nella putredinem caninam del loro lavoro115.
D’altra parte, solo in quest’ottica può essere letta l’istituzione da parte del comune del Liber notariorum comunis Bononie, divenuto poi matricola116, e la successiva trasformazione di quella che in origine era una semplice procedura di accertamento del titolo in un vero e proprio esame per l’accesso alla professione. A partire dal 1221 infatti, alla licentia et facultas exercendi rilasciata dall’autorità imperiale o, più comunemente, da altra autorità delegata si affiancò una procedura volta ad accertare le competenze professionali di base degli aspiranti notai117.
L’esame di notariato fu quindi disciplinato attraverso una serie successiva di norme contenute negli statuti bolognesi, al fine di regolamentarlo e renderlo sempre più rigido e severo118. Nemmeno questi provvedimenti, tuttavia, dovettero essere sufficienti a garantire l’effettiva preparazione e la qualità di coloro che, avendo superato la prova, si fregiavano del titolo, se ancora Ranieri da Perugia denunciava i tanti che ai suoi tempi ricoprivano indegnamente il ruolo e si lamentava degli “hebetes qui commoda pecuniarum assistricis sapientie lumini atque gratie preferentes, notarie scientiam, […] usurpare pertentant”119, dandoci una viva testimonianza di come almeno la parte del ceto notarile culturalmente più avvertita si fosse posta il problema del “vuoto culturale che troppe volte forse poteva nascondersi dietro le formule solenni dei privilegi e della investitura notarile”120.
La situazione, peraltro, non migliorò neppure col passare del tempo, e a testimoniarlo è proprio l’indignazione con la quale Salatiele, nella ormai famosa glossa nugis sophisticis121, si scaglia contro la pratica oramai endemica di superare alla meglio l’esame ‘cantilenando’, alla stregua delle donne che recitano il Padre nostro, i rituali quattro formulari in cui di fatto veniva a sintetizzarsi l’intero universo documentario122. Del resto, di cosa ci si doveva meravigliare: era o no, la teorica dei quattro instrumenti, il bagaglio culturale principale, se non unico, delle stesse “persone che avrebbero dovuto assumersi il compito di garantire la effettiva idoneità e dignità di chi aspirava a divenire notaio”123?
Proprio qui sta, per Salatiele, la radice del problema. I seguaci del Formularium tabellionum, lungi dall’essere dei “superstiti ai tempi suoi”124, come li ha definiti Orlandelli, dovevano essere ancora una parte assai consistente del ceto notarile e la teorica dei quattro istrumenti, nonostante gli sforzi di Ranieri da Perugia, non solo rappresentava ancora per molti di loro la base dello svolgimento quotidiano della professione, notoriamente conservatrice e tradizionalista, ma, fatto ben più grave, costituiva ancora la parte principale della formazione scolastica dei futuri notai125.
Lo dimostra, tra l’altro, la stessa struttura dell’esame di notariato, che anche dopo la riforma statutaria del 1246-1250, come ha sottolineato Orlandelli – con il quale in questo caso non possiamo che concordare – si presentava “come sostanzialmente ed esclusivamente basato sulla conoscenza del formulario […] orientato verso la pratica”126 ed è per questo che non è pensabile, come invece ha fatto e continua a fare certa storiografia locale, che tale riforma possa aver recepito “i suggerimenti”127 di Salatiele in merito all’esame, potendosi parlare piuttosto “di una manifesta influenza, prima di Ranieri da Perugia, e quindi, soprattutto, di Rolandino […]”128. D’altronde, come fa notare sempre Orlandelli, è da credere che “se la riforma fosse stata affidata o quanto meno se essa avesse subìto una notevole influenza delle idee del nostro, essa si sarebbe fondata non già sulla effettiva conoscenza del formulario, che è il punto sul quale batte prima Ranieri da Perugia e quindi soprattutto Rolandino, bensì su un grosso esame di diritto civile imperniato sulla dottrina delle persone, delle cose, e delle azioni nonché sulla teorica dei patti e dei contratti, piuttosto che sulla approfondita conoscenza del formulario in relazione ai negozi effettivamente vivi nella pratica”129.
VII. L’apporto di Salatiele
Quello della preparazione professionale dei notai non è dunque, attorno alla metà del xiii secolo, un problema nuovo per Bologna, come si è visto. Nuova, e forse più radicale, è però la risposta di Salatiele. Il doctor artis notarie, infatti, – ed è ciò che qui ci preme sottolineare – pone sul banco degli accusati l’intero modo di far scuola attraverso raccolte più o meno estese di formulari, come quelle che fino ad allora avevano rappresentato – e con Rolandino torneranno a rappresentare – l’orizzonte indiscusso dell’insegnamento bolognese130. In questo sostanziale appiattimento della notaria sul formulario egli individua la causa prima dell’ignoranza e della incompetenza dilaganti nella corporazione, con grave rischio della certezza di acta e instrumenta. Questo spiega il suo tono aspramente polemico e, soprattutto, la collocazione emblematica della glossa nugis sophisticis nel Proemium della sua Ars notariae, che si comprende solo avendo a mente l’importanza fondamentale che l’autore attribuiva al problema. Ma questo spiega ancor più la sua scelta di dare spazio e attenzione soprattutto alla parte teorico-dottrinale, a scapito di quella, senz’altro più elementare e didascalica, formulare-esemplificativa.
Se letta dunque in questa prospettiva, la nuova impostazione che Salatiele dà al suo trattato non ci pare affatto dettata da un atteggiamento intellettualistico e aristocratico, come troppe volte e forse un po’ semplicisticamente è stata interpretata131, ma dalla intima convinzione che un vero rinnovamento dell’ars notariae, un suo innalzamento e consolidamento culturale, non possano avvenire se non ristabilendo quel rapporto forte e sostanziale tra diritto, legislazione e documento che è, in fin dei conti, alla origine stessa del notariato, come si è visto in principio. Il suo non è un rifiuto aprioristico del formulario – e come potrebbe esserlo d’altra parte? – ma una visione lucida e a suo modo estremamente moderna dei rischi riconnessi ad una concezione troppo schematica e al tempo stesso assolutizzante di esso. Se le formule dei documenti non scaturiscono da un rapporto vivo con la legge, sia pure quella giustinianea rivista e aggiornata nell’interpretazione dei glossatori, da un suo preciso e puntuale rispecchiamento nell’instrumentum, esse perdono la loro stessa ragione d’essere e divengono vuoto formalismo, venendo meno anche la funzione prima che si riconosce loro: quella di fare del documento uno strumento inattaccabile di certezza giuridica. È per questo che bisogna tornare ad una intima conoscenza del ius civile, che bisogna studiarlo e analizzarlo a fondo: si parte dalla legge per arrivare al formulario e quindi al documento; la strada inversa è senza dubbio più breve, ma non porta se non ad un progressivo svuotamento di significato di quelle stesse formule che si vorrebbero così padroneggiare più facilmente.
Certo, è vero, mai come in questo periodo si pone come determinante il problema della prassi e delle istanze che, non ancora recepite e stabilizzate in un chiaro e preciso quadro normativo, si fanno però avanti con forza dalla parte più viva e dinamica della società132. Quella prassi che già Ranieri aveva cercato di conciliare con le formule dei documenti e di cui senza dubbio Rolandino saprà farsi ottimo interprete. Ma anche sotto questo profilo va tenuto presente, a nostro avviso, che quello di Salatiele non è né un rifiuto totale né un disinteresse dal sapore un po’ snobistico. Anzi, in alcuni casi egli dimostra di avere ben presente queste istanze: è il caso, ad esempio, nel formulario della compravendita, della “clausola per cui il venditore risponde delle sue obbligazioni con ogni suo bene” (sub pena dupli extimationis dicte rei ut pro tempore plus valuerit et sub obligatione suorum bonorum), diffusa nella prassi a partire dal secondo decennio del xiii secolo e inserita per la prima volta in un manuale di notaria proprio da Salatiele, seguito non casualmente in questo da Rolandino133. O ancora si può ricordare l’attenzione particolare che egli dedica ad un contratto molto importante nella Bologna universitaria della metà del xiii secolo, come la compravendita di libri: non solo egli riprende il riferimento alla cosiddetta consuetudo civitatis Bononie già previsto, nella clausola relativa all’impegno assunto dal venditore di rispondere per l’evizione e i vizi della cosa (promittens idem venditor pro se suisque heredibus stipulanti de victio et evictione ipsius libri secundum usum et consuetudinem civitatis Bononie), da «un personaggio minore come Bencivenne, normalmente ricondotto all’entourage dei discepoli di Ranieri»134, ma «coglie anche l’opportunità offerta dal suo apparato di glosse per illuminare il lettore anche sul contenuto dell’evocata consuetudine bolognese» (gl. Bononie), tanto che è solo grazie a lui che oggi sappiamo in cosa consistesse, e inoltre «procede ad una descrizione più precisa dell’oggetto del contratto»135 rispetto a quanto non avesse fatto Ranieri. Tutti elementi che, ancora una volta, saranno ripresi da Rolandino136.
Il fatto è, però, che nella visione di Salatiele la prassi, proprio per il suo essere soggetta alle istanze più mutevoli della società, per il suo incessante divenire, non può fornire al documento quell’appiglio giuridico forte e certo che invece viene ad esso dal diritto civile, stabilizzatosi nella glossa accursiana e nella Summa di Azzone: nel mondo in perenne trasformazione e continuo cambiamento che lo circonda solo una piena aderenza delle formule alla roccia salda e ferma del ius civile è in grado di conferire davvero al documento quella firmitas e quella fides inattaccabili cui in definitiva ambisce ogni instrumentum. Questo è il motivo per cui la prassi, per quanto importante, non può divenire il faro principale sul quale orientare il dettato dei documenti ma deve essere letta e meditata anch’essa alla luce del diritto positivo137.
Né d’altra parte ha senso, ci pare, affermare che «Salatiele compie rispetto ai colleghi il massimo sforzo di avvicinamento alla iuris civilis sapientia insegnata nello Studio, ma perde di vista la realtà della pratica e la specificità della sua arte, riducendola ad ancella del diritto civile»138, ponendo così la questione nei termini di una autonomia e dignità delle singole discipline come quella che tanto spesso affanna noi moderni. Se è vero, infatti, che Rolandino ha una visione della notaria come arte in sé e per sé, fondata essenzialmente sulla conoscenza del formulario, per Salatiele l’idea che essa sia così intimamente legata, e foss’anche subordinata, al diritto non è affatto uno svilimento vista la nobilissima concezione che ha del ius civile, ritenuto addirittura una parte del firmamento! Al contrario, egli ha della sua arte un’idea tanto alta da perseguire l’obiettivo ambiziosissimo – forse troppo, questo fu il suo vero limite –, di renderla ancora più nobile e vicina a Dio attraverso la creazione “di un instrumentum tetragono ad ogni attacco”139, quale solo poteva essere quello scaturito da una piena aderenza al ius civile.
Per questo stesso motivo, e qui veniamo al dunque, non è nemmeno concepibile per Salatiele che nella notaria trovi spazio la materia processuale, a meno che l’ars notariae non rinneghi se stessa140. Non vi è dubbio che anche da questo punto di vista Rolandino incarni una realistica coscienza dei tempi che sfugge completamente a Salatiele, saldamente ancorato all’idea che il notaio debba “conoscere alla perfezione i diritti e i doveri della parti, le azioni e le eccezioni; ma di esse si dovrà servire per armare la torre dell’instrumento non per demolirla”141. Il processo è considerato infatti una “manifestazione patologica dell’esistenza del documento notarile, imputabile ad una non corretta osservanza dei principi romanistici”142 o, in altre parole, e per tornare ad insistere sul punto che ci pare nodale, ad un mancato rapporto tra formulario e legislazione.
Tutto diverso, opposto si direbbe, l’atteggiamento di Rolandino riguardo a questo problema. A fronte di “una umanità che non si limitava ad esporre in modo più o meno chiaro le sue volontà nella statio del notaio, ma che gridava pazzamente le sue ragioni nell’aula del tribunale”143, come ha efficacemente rilevato Orlandelli, comprende perfettamente l’ineluttabilità di un allargamento alla materia processuale e, non senza una buona dose di lungimirante pragmatismo, scorge anche tutti i vantaggi che da ciò sarebbero potuti derivare alla corporazione, in un momento storico caratterizzato da traumatiche e continue trasformazioni degli equilibri di potere.
La strada imboccata dal principe dei notai risulterà quindi nella Bologna popolare del settimo decennio del xiii secolo più economica e soprattutto più funzionale. Nessuno strappo violento e radicale con il passato, anzi un pieno ritorno “allo schema formularistico della tradizione: egli effettivamente insegnava in una scuola professionale e badava quindi a fornire gli strumenti più adatti ai professionisti”144. Un programma didattico concentrato essenzialmente sullo studio dei contratti concretamente attuati nella pratica145 e tradotti in quelle formule che da sempre, sul piano linguistico, si esprimevano con un latino “del tipo formulare-ripetitivo, lingua appresa una volta per tutte in fase di tirocinio”146. Il tutto raccolto, commentato ed esemplificato in un comodo e ricco prontuario adatto all’uso di studenti e praticanti, qual è, di fatto, la Collectio contractuum. Semplicità, accessibilità e immediatezza147: sono dunque questi gli ingredienti che decreteranno il successo dell’opera di Rolandino in quella parte della corporazione da sempre poco avvezza a salti e visuali teoriche di spessore148.
Conclusioni
Non vi è dubbio che in questa differente visione della notaria risiedano le ragioni profonde del dissidio tra Rolandino e Salatiele e del loro destino scientifico. Tuttavia, non sarebbe corretto affermare che l’uscita della Collectio contractuum abbia decretato sul piano scientifico la fine di Salatiele. Certo influì su di essa, ma nei fatti non basta a spiegarla.
Significativi ci paiono in tal senso soprattutto i dati relativi all’attività didattica dei due maestri, finora sostanzialmente trascurati dalla critica. Il Liber sive matricula ci tramanda infatti l’elenco degli allievi representati149 dai due rivali all’esame di notariato e, mettendoli a confronto fra loro, ne emerge uno scenario interessante e in parte forse inaspettato. Le cifre ci attestano infatti l’enorme successo che riscosse l’insegnamento di Salatiele, un successo pari se non addirittura maggiore a quello ottenuto da Rolandino ma soprattutto, ed è un rilievo fondamentale, ininterrotto, visto che perdurò anche dopo l’uscita editoriale della Collectio contractuum nel 1255. Vediamo infatti affollarsi i banchi della sua scuola almeno fino al 1260-1261150.
In aggiunta, non pare privo di una sua importanza il fatto che Salatiele, così metafisico nella nostra storiografia, nello stesso periodo abbia ricoperto incarichi di primo piano all’interno della Società dei notai, dove fu eletto console e massario ancora negli anni Sessanta. Una circostanza, anche questa, che vale senz’altro a dimostrare il prestigio di cui il maestro continuava a godere agli occhi dei contemporanei ben oltre il termine storiograficamente fatidico del 1255151.
Quali dunque, in ultima istanza, le ragioni della sconfitta di Salatiele? Ci pare che esse vadano ricercate anche fuori dalla scuola. È sul piano politico, infatti, fomentato dall’insanabile rivalità scientifica, che si giocherà l’ultima pesante battaglia tra i due maestri bolognesi, schierati ancora una volta su opposte fronde. Tanto è stato scritto sull’argomento, perciò basterà ricordare qui i fatti principali.
In quegli anni ’60 del Duecento durante i quali avvampa a Bologna – e specie attorno allo Studium, vero e proprio volano dell’economia cittadina152 – lo scontro tra fazioni avverse e le forze del popolo, guidate dalla Società dei notai, sono ormai ad un passo dal conquistare il governo della città, Salatiele, coerente con la sua visione del mondo e della società, rimane fedele alla fazione dei Lambertazzi153 e al partito aristocratico che fino ad allora aveva retto il comune. Legato ad un’idea ormai sorpassata della società posta sotto la guida illuminata dell’Imperatore, garanzia suprema di ordine e stabilità attraverso la legge, prima ancora che mediante le armi, e fonte stessa dell’esercizio notarile, non può riconoscersi nel nuovo mondo che si sta affacciando alle porte e a cui guarda anzi con timore e sospetto. Un’idea destinata fatalmente ad essere travolta assieme ai suoi sostenitori, a cominciare proprio da quell’illustre maestro di notaria che, sebbene non avesse avuto una parte di primo piano nei fatti di quel periodo, rappresentava per Rolandino prima di tutto un nemico personale.
E’ soltanto a partire da questo momento, infatti, che la fortuna di Salatiele inizia ad offuscarsi: nel 1264 è iscritto nell’elenco dei soggetti tenuti a pagare una colletta imposta dai Geremei alla parte avversa, nel 1265 è inserito nelle liste di proscrizione e condannato al bando assieme al resto dei “ghibellini” bolognesi, nel 1277 risulta ancora fra i confinati154.
Nei fatti, dunque, Salatiele cade vittima della persecuzione politica messa in atto dai Geremei, che non conobbe perdono e non si arrestò nemmeno sulle soglie della scuola, “atteggiamento che non appare giustificabile se si considera la modestissima rilevanza politica di Salatiele rispetto a Rolandino, ma che appare motivata a chi non dimentica le ragioni intime del dissidio e l’irriducibile divergenza di principii fra i due”155. Una condanna durissima che poi, come un’ombra cupa, si allungherà su tutta la sua figura e la sua opera scientifica.
È invece proprio a questo nuovo mondo e alle forze che lo animano che guarda Rolandino, come all’unico capace di riempire quel vuoto di potere e di legittimità lasciato aperto dall’inesorabile declino dell’autorità imperiale. Dopo la vittoria del partito antimagnatizio negli anni Sessanta e la successiva cacciata dei Lambertazzi ghibellini dalla città negli anni Settanta e Ottanta del xiii secolo, Rolandino diventa quindi il punto di riferimento dottrinale e organizzativo del notariato bolognese, finalmente pronto a porsi alla guida della macchina amministrativa e giudiziaria del nuovo comune156.
Grazie a questo “antico maestro di notaria fattosi capoparte e capopopolo”157, come lo ha definito Cencetti, il notariato bolognese acquisisce un ruolo centrale nell’ambito cittadino, possibile proprio in virtù di quella impostazione teorica che estendeva senza remore l’ambito di intervento del notaio al processo e all’amministrazione pubblica in genere, ma che, d’altra parte, si sostanziava in un ritorno alla scuola del formulario.
La sconfitta politica di Salatiele quindi non fa che acuire un divario di natura prettamente scientifica. Saldare tradizione, sul piano dottrinario, e moderna spregiudicatezza, sul piano politico: questa, dunque, in poche parole, l’operazione vincente di Rolandino.
Ma in ultima istanza, al di là delle ragioni di parte e dei risentimenti personali, e al di là dei molti stereotipi storiografici, ci pare che l’acceso scontro dottrinario e scientifico fin qui descritto fra i due grandi maestri bolognesi di notaria possa trovare il suo senso profondo solo se letto come un ulteriore episodio all’interno di quel processo storico secolare che aveva portato, come abbiamo visto, la legislazione e la dottrina giuridica ad allontanarsi progressivamente, ma inesorabilmente, dalla prassi notarile e dal formulario dei documenti. Allontanamento di fatto ancora marcato nel xiii secolo: non era evidentemente ancora giunto il momento di coltivare concretamente l’idea di una armonica simbiosi tra documento e diritto positivo, come aveva tentato di fare Salatiele. Sarà solo in tempi a noi assai più vicini che il notariato tornerà ad incamminarsi lungo quei sentieri, alla ricerca dell’istrumento perfetto.